Δευτέρα 28 Σεπτεμβρίου 2009

Ανάμνηση ιταλικό

A Cerigotto (Antikythira) arrivai all'alba di una delle prime mattine di maggio del 1943 dopo un'intera notte di traversala a bordo di un "caicchio" che mi aveva trasportato da Cerigo (Kythera) la grande isola madre il cui nome è legato alla tradizione mitologica della nascita di Venere. Ero infreddolito, pallido e stravolto per aver viaggiato tutta la notte il cielo aperto con un mare arrabbiato e il brontolio scoppiettante del motorino che a fatica spingeva il caicchio a lagliare la cresta delle onde. Ho sempre maledettamente sofferto di mal di mare e già durante la prima traversata sempre notturna da Ghition a Cerigo ne avevo fatto un'esperienza traumatizzante. Infatti, appena fuori dal porto, in perfetta sincronia con il "ballo" della nave il mio stomaco aveva cominciato a restituire il ricevuto e, nel vanto tentativo di cercare nella mente qualche riferimento esperienziale capace di alleviare lo stato di prostrazione, dopo aver vomitato "l’anima" mi adagiai supino sul ponte.

Il marinaio di sentinel1a che mi passava accanto ogni volta che il tracciato di controllo di Sua spettanza ve lo obbligava, ebbe pietà di mie, e sul mio corpo, povero straccio Umano sbattuto per terra, distese un grande telo impermeabile che servi a proteggermi dagli spruzzi di acqua che mi piovevano addosso a intermittenza ritmica, ogni volta che i marosi si infrangevano sul fianco della nave che pure aveva una stazza ragguardevole. Per la prima volta stavo sperimentando su me stesso la veridicità di un sintomo tipico del mal di mare: l'indifferenza alla morte, anzi una specie di "menefreghismo" misto quasi al desiderio che l'evento Supremo si verificasse.

Tuttavia, in tale scenario da tregenda tra il sibilare del vento e il fragore del mare non mancavano le note buffe di soldati, in preda anche loro ai conati di vomito, che si rivolgevano a me unico medico sul posto, per chiedere soccorso.

Ma quale aiuto avrei potuto dare a loro se non l'incoraggiamento a sdraiarsi supini come me all'aperto, e pensare magari al peggio che sarebbe potuto accadere se fossimo stati avvistati da qualche sottomarino nemico?

Si sa che una volta sbarcati passa ogni malore e ci si riconcilia con le gioie della vita. Così fu per me al primo sbarco, a Cerigo dove per altro riassaporai nel vitto gusti dimenticati: pane bianco, carne squisita di agnello e verdura fresca; sgradevole, invece, l'impatto con il vino resinato (krasi) e ancor più con l'acqua carica di cloro.

Il secondo sbarco, quando scesi barcollante sull'isola di Cerigotto, fu caratterizzato da un senso di nausea persistente che si protrasse per altri due giorni, non facendomi apprezzare tout-court la genuina bellezza del luogo che il destino mi aveva assegnato come distretto di lavoro, nella mia qualità di ufficiale medico dell'esercito italiano di occupazione.

All’epoca, in Italia, eravamo tutti persuasi che la nostra sciagurata esperienza bellica a fianco della Germania stava per concludersi e, infatti, almeno per noi gli eventi precipitarono in fretta, e 18 settembre dello stesso anno il generale Badoglio per il governo Italiano firmò la resa senza condizione al comando degli Alleati.

Quando ripenso ora distanza di 50 anni, ai 4 mesi trascorsi a Cerigotto (primi di maggio - fine settembre 1943, ringrazio iddio per la protezione a me concessa nell’esaudire, senza che me ne rendessi conto, i miei reconditi desideri. Ho sempre accettato 'sportivamente' gli eventi della vita senza mai forzarli e debbo confessare che mi è andata bene.

Quando fui richiamato in servizio e spedito in terra d'oltre mare, la Grecia, anziché preoccuparmi del peggio che poteva succedermi, mi sorrideva l'idea di conoscere altri luoghi e avvicinare altre persone. Nei pochi giorni che rimasi ad Atene passavo con gli occhi spalancati dalle meraviglie del Partenone alle inusitate stimolazioni delle papille gustative di fronte al pane bianco, alle olive giganti e alle sardine sottolio, di cui a Milano si era persa memoria.

Fui assegnato al comando militare di Kalamata nel Sud del Peloponneso, ahimè, in piena zona malarica con il pericolo di andare a finire a Messene, la vicina pianura dove la terzana maligna mieteva la vita di tanti soldati e invece, una volta laggiù, destinazione Cerigotto, mai sentita nominare prima, una piccola isola nel bel mezzo del Mediterraneo, a metà distanza tra Peloponneso e Creta. Là usavano mandare gli ufficiali "freschi" 'appena arrivati dall'Italia per sollevare gli altri dal disagio dell'isolamento. Infatti, mi dissero subito che la posta arrivava con cadenza quasi mensile, ma in compenso mi assicurarono che non c'era malaria.

Ecco un altro segno del destino; non solo assenza di anofele per la orografia dell'isola (un ammasso di rocce in parte a strapiombo sul mare, clima secco e mancanza di pianure e qualsivoglia superfici paludose), ma, meraviglia delle meraviglie, a pochi metri dal punto di approdo situato nell'ombelico di un'ampia insenatura naturale, indovinate cosa vi trovai? un potente getto di acqua dolce freschissima sgorgante dalla viva roccia, che i soldati italiani avevano incanalata in un tubo metallico di diametro di 10 cm. Peccato che quel prezioso elemento fosse destinato a disperdersi perennemente el mare.

Altre caratteristiche ambientali che ora ricordo con rimpianto erano; mancanza di luce elettrica e di automezzi di alcun tipo, al posto delle strade, sentieri, ciuffi di case basse con pavimenti sterrati; abitanti ormai meno di un centinaio, con molti asini. Il presidio militare italiano era composto di 100 soldati di fanteria e artiglieria comandati da due ufficiali, un tenente e un sottotenente di carriera, io il terzo ufficiale con il grado di sottotenente medico. Inoltre due stazioni radio di avvistamento; Una all'estremità meridionale dell'isola, della Marina italiana con sottufficiale e 4 subalterni, e l’altra dislocata sulla collina più alta dove vivevano attendati 3 militari tedeschi. Allora io mi disimpegnavo abbastanza bene con la lingua parlata tedesca e cosi riuscii a stabilire un rapporto di cordiale convivenza tra noi e loro, tanto che, dopo il mio arrivo, essi all’imbrunire, quando veniva distribuito il nostro rancio caldo, si calavano giù per gustare ciò che noi offrivamo con generosità. Va tenuto presente che loro si nutrivano esclusivamente di gallette e scatolame, mentre noi disponevamo anche di vino oltre che di tanto pesce fresco.

La mia attività in questo angolo di paradiso terrestre? I militari, grazie al cielo, godevano tutti di ottima salute, e io fui lieto di rendermi gratuitamente disponibile per i bisogni della popolazione.

Ogni mattina, in shorts e robuste scarpe chiodate, iniziavo il mio di visite in tutte le abitazioni dove venino chiamato. Ciò mi permise di conoscere presto l'itera superficie dell'isola (km 8 in lunghezza e 3 circa in larghezza), e di godere di tutto ciò che la natura selvatica offriva ai mici sensi, colori vivi e sfumati, cinguettii di uccelli e voce di mare, odori forti della macchia e delle erbe mediterranee che mi richiamavano gli stessi odori della Puglia, mia terra di origine. Indimenticabile il rapporto relazionale con tutta la gente: venivo accolto in case sempre linde e rimanevo affascinato dal comportamento e dalle espressioni raffinate dei miei interlocutori, quasi sempre donne, che dimostravano, con i loro gesti, almeno cosi ritenevo, la mobile discendenza dall’antica civiltà ellenistica.

Immancabilmente ogni volta mi veniva offerto un bicchierino di “ouzo” la grappa nazionale all’anice, e fettine di piccoli cocomeri a superficie pelosa che al paese mio vengono chiamati in versione dialettale “carsid”. Quando facevo ritorno al mio alloggio: una stanza imbiancata a calce con un lettino sormontato per andare al mare, dove si ritornava dopo la siesta pomeridiana.

Non ho più avuto la fortuna di godere una vacanza balneare (4 mesi) cosi lunga; Li imparai a tuffarmi anche da una certa altezza, impegnandomi in allenamento di nuoto a resistenza prolungata nel timore, chissà mai, di naufragio bellico nel viaggio di ritorno sulla terra ferma.

Sul piano professionale della mia specialità mi capitò di essere chiamato di no ad assistere una partoriente che non riusciva a liberarsi. Una scena che meritava almeno di essere fotografata: la donna con espressione dolorante seduta su una cassa da imballaggio e sorretta ai due lati da due donne che rappresentavano l'estremo prossimale di una duplice fila sempre di donne anziane (almeno 5 o 6 per parte) disposte a semicerchio tutte sedute con le mani sul grembo e l'espressione di severa partecipazione emotiva. Ai piedi della madre "dolorosa” accovacciata sulla muda terra quella che esercitava le mansioni di mansioni di “mammana”, con le mani che ravanavano nella vagina della partoriente, al buio, completamente coperta da ampia gonna sino alle caviglie. Ciò che più mi colpi fu uno straccio intriso di sangue posato per terra che serviva da asciugamani alla facente funzioni di levatrice. Io, con l'autorità che mi derivava dall'investitura professionale, chiesi di far sgombrare l'ambiente dalle persone che non servivano, quando passai ad ascoltare il battito cardiaco del feto annunciai con rammarico che non era più vivo. Con l'esplorazione mi resi conto che la testa fetale era bene impegnata e che la dilatazione della bocca uterina era quasi completa anche se ottenuta con imprudenti manovre. Se avessi avuto a disposizione il forcipe avrei risolto il caso in breve tempo; in compenso feci desistere la mammana da ulteriori improduttive manipolazioni e rassicurai che lasciando in pace la donna, con la ripresa del travaglio spontaneo il parto sarebbe avvenuto senza pericolo per la madre. E cosi fu; all'alba me ne tornai a casa meditando sulla singolare esperienza vissuta.

Qualche giorno dopo ricevetti l'omaggio di un agnello.
Altra esperienza nuova fu la partecipazione al rito funebre di un vecchietto morto per blocco renale: la salma veniva transportata alla sepoltura senza cassa, adagiala su una lettiga preceduta dal Pope salmodiante.

Questo straordinario periodo della mia vita giovanile (avevo allora 30 anni) trascorso in assoluta serenità agreste e balneare, subì l'inevitabile battuta d arresto la mattina dell'8 settembre, quando ci pervenne la notizia della nostra capitolazione militare. indescrivibile emozione di giubilo in tutti, unitamente alla confusione e al senso di smarrimento per trovarsi improvvisamente isolali in balia del "nulla" per l'interruzione di tutte le vie di comunicazione con il continente.

Non si ricevevano più ordini e neppure notizie,. sembrava anzi di vivere una condizione di quiete che a me non dispiaceva se non fosse stato per il senso di abbandono, come trovarsi dimenticati nel limbo, che ogni tanto mi turbava la mente. Dopo una settimana trascorsa in tale silenzio di voci, suggerii al lenente, che aveva la responsabilità del comando di tutta la guarnigione, di razionare i viveri in vista di un probabile protrarsi di questo isolamento. Oltre tutto, dall'annuncio del nostro armistizio i 3 tedeschi non erano più scesi a valle in cerca di cibo; almeno da loro avremmo avuto notizie più dettagliate.

Alla sera dopo la cena in gavetta, io mi univo agli altri due ufficiali per non andare a letto come le galline, e anche per partecipare più da vicino ai problemi di vita militare per me completamente nuovi, Confesso che le poche volte che ho dovuto convivere in ambienti militari (nel 1941 un mese di addestramento all'ospedale militare di Milano e nel 1942 tre mesi in una località della Liguria dove erano finiti i resti di una divisione che era state decimata in Albania) non mi sono trovato a mio agio per mentalità diversa: la mia in un certo senso laica più libera, la loro rigida e spesso priva di logica e di buon senso.

Ecco un esempio clamoroso di tale diversità di pensiero: durante una di quelle riunioni serotine alla luce di un lume a petrolio, il tenente (32 anni bruno capelli crespi e pipa sempre in bocca), rivolto al suo collega di grado inferiore e assai più giovane (22 anni) espresse la sua preoccupazione per aver notato nella truppa non soltanto sintomi di nervosismo e smarrimento, ma anche episodi di malcontento e, in alcuni casi di insubordinazione nei suoi confronti. L'altro, il giovane sottotenente in piena concordanza non faceva che annuire. Cosi alcune sere dopo, con idee più chiare circa i due sottufficiali (soprattutto uno grassoccio di Busto Arsizio) identificati come comunisti sabotatori, mentre si scambiavano opinioni sui provvedimenti disciplinari da adottare, il signor tenente, conscio del suo potere supremo, dichiarò la sua propensione a istruire in loco un vero processo contro i due indiziati e ... farli fucilare “per alto tradimento”. A questo punto la mia risposta tagliente: "bravo ... si tratta di vedere se il tuo plotone di esecuzione ti obbedirà!" c, al limite, in quale parte avrebbero puntato i loto fucili.

In tale clima dì persecuzione paranoidea che in breve tempo stava montando a valori più alti. ben presto prese consistenza la probabilità di un'altra congiura ben più grave della prima. Mi accorsi che stavano progettando dì far fuori i 3 tedeschi e, questa volta, anche i "due" ci sarebbero stati perché il giovanissimo tenentino in poche parole espose il piano di attacco: "scaliamo la collina con dispiegamento circolare e una volta in cima si fa presto a colpirli" ... "come distruggere un nido di aquile", aggiunsi io; e di seguito ... " un bel coraggio 100 contro 3... con i quali, per altro, fino a pochi giorni prima avevamo consumato il rancio insieme. Comunque, è chiaro che se portate a compimento un'azione del genere anziché osannati di eroismo, sarete tacciati di infamia".

Nello stesso momento mi balenò l'idea di proporre un piano, con il quale, a mio parere, avremmo rapidamente sbrogliato l'intricato groviglio di sospetti e di pericolose tensioni nel quale sembravamo esserci cacciati. Invitai alla calma e a maggior riflessione i miei interlocutori, e facendo leva sul sentimento dell'onore che deve caratterizzare la condotta di un buon militare, aggiunsi: "domattina io e te (rivolto al tenentino) andiamo su., al nido dei tedeschi, ai quali io dirò ciò che realmente si sta verificando nelle file dei nostri soldati, relativo agli atteggiamenti di rivolta contro di noi, e che pertanto potrebbe venire a mancare il nostro supporto di garanzia nei loro confronti. Da ciò l'urgenza di avvertire i loro comandi prima che sia troppo tardi".

Per fortuna le cose andarono come le avevo pensate, perché il giorno dopo la nostra ambasciata, all'alba fummo svegliati dal crepitio delle mitragliatrici. Nel porticciolo era ormeggiata una imbarcazione della marina tedesca; da questa e da altri punti strategici partivano le raffiche che ci destarono non soltanto dal sonno, l'ultimo in quell'isola, ma anche dalla bonaccia ipnotica che era subentrata all'8 di settembre e che paradossalmente aveva dato il via nella mente dei militari italiani a fantasie oniriche di puerile e stupido revanscismo alla Don Chisciotte.

Come unico capace di interloquire nella loro lingua, fui chiamato a rapporto dall' ufficiale comandante tedesco il quale voleva che gli segnalassi i nomi dei nostri indiziati sobillatori ed io risposi che non si trattava. di persone identificate, ma di “voci” che circolavanto tra i soldati.

Al momento di mettersi a tavola con il pranzo di mezzogiorno consumato in cameratesca allegria, spuntò fuori come un jolly dal mazzo di carte, un capitano dell’esercito italiano collaborazionista. Aveva compito di convertirei tutti alla causa del comune alleato germanico, e nel raduno generale che avvenne nel pomeriggio sullo spiazzo adiacente il nostro acquartieramento, egli fece sfoggio di tutta la sua infiammata retorica (aveva persino la bava alla bocca) per trascinarci con lui al rinnovato grido di riscossa “allons enfants de la Patrie!" Tutte parole sprecate perche nessuno ne rimase commosso e all'imbarco che ebbe luogo al calar della sera, fummo disarmati.
Tutti quanti saremmo stati inviati in campi di concentramento.
Lo intanto approfittando della confusione che si era venuta a creare dopo l'arrivo
della nave tedesca, avevo fatto sparire l'intera dotazione di medicinali e altro materiale sanitario, consegnandolo al sindaco dell'isola; un amico che mi aveva portato tante volte a pescare nella sua barca; indossava sempre e soltanto una pesante maglia di lana grezza, spessa un dito, confezionata il mano.

I1 mio commiato da quella terra alla quale mi ero affezionato fu struggente; un nutrito nugolo di persone, più donne, vennero a salutarci prima di salire a bordo; strinsi molte mani, ritraendo in fretta le mie da chi voleva baciarle, alcune donne piangevano e anche ì miei occhi si inumidirono in una grottesca maschera facciale dominata da un sorriso chissà quanto artefatto e ridicolo.

La scena struggente di addio che mi strappò dalla gente di Cerigotto, blocco i miei pensieri con tale intensità che non m'avvidi quando la nave si staccò dagli ormeggi; 1'aria era ferma e il mare pure, sul calar delle tenebre notturne mi accorsi di essere rimasto solo in coperta in mezzo ai pochi addetti del comando militare tedesco perché tutti gli altri erano stati inghiottiti nel capace ventre del mezzo nautico costruito o adattato al trasporto di carri armati.

Immerso nella solitudine di quella notte (circa il 30 di settembre del 1943) riflettevo sui motivi a monte dei "privilegi" di cui mi sembrava di fruire: quella specie di riguardo particolare da parte del comandante tedesco per il fatto che sapevo esprimermi nella sua lingua, e di ciò il pensiero di riconoscenza alla memoria di mio padre che nel 1934, alla fine del primo anno di università a Bologna, mi aveva spedito per un periodo di 4 mesi sul lago di Costanza in Germania, e al ritorno quando venne a rilevarmi a Milano, gli avevo manifestato tutta la mia gioia per la nuova esperienza vissuta che consideravo di pari importanza agli studi per la laurea in medicina alla quale "lui" aveva fortemente desiderato avviarmi.

Di certo e senza volerlo stavo vivendo un momento "felice" di navigazione sulle acque del Mediterraneo straordinariamente ferme da giustificare il confronto con una infinita macchia d'olio; una fortuna insperata dopo le tormentate esperienze descritte prima. Soltanto una volta nel pieno della notte avevo notato un certo movimento di allarme intorno alle due postazioni di artiglieria leggera, e io prontamente avevo pensato come sopravvivere nel caso di caduta in mare: fare il morto da vivo per ... salvare 1'altro. Ancora avanti per qualche ora con lo sguardo incantato allo scenario in pieno sole del porto del Pireo e la superficie luccicante del mare sul quale lo scafo del traghetto sembrava scivolare dolcemente fino all'approdo verso le ore 8.

Tutto il nostro gruppo fu sistemato in un vasto campo di raccolta insieme con altri soldati; a me fu concesso un lasciapassare con l'invito a mettere in evidenza il bracciale con il fregio della croce rossa, e un "buono alloggio" in un albergo al quale rinunciai dopo la prima notte perché assalito dalle schifosissime cimici. Anche per il caldo afoso si dormiva meglio per terra, fuori della baracca, sul telo da tenda militare in dotazione. Aldilà della rete dì recinzione del campo, folla di civili greci che offrivano ai soldati bevande e frutta con l'invito gestuale a uscir fuori per godere della loro cordiale compagnia. A proposito di cordialità nelle relazioni tra popolazione greca e soldati italiani, a prescindere dalla mia personale testimonianza di cui ho parlato, va detto che già durante le fasi attive della guerra, anzi nonostante la contrapposizione conflittuale, tale sentimento di cordialità interpersonale nel privato era diventato talmente palese da stimolare l'umorismo di Churchill che definì il corpo di spedizione italiano in Grecia come" armata Sagapò", cioè l'armata dell' amore.

Tant'è che almeno tra popoli di antiche luminose civiltà come quelle ellenica e romana, non è facile imbrigliare le correnti archetipiche degli affetti, tra i quali, ovviamente, ne esistono di meno nobili, come la furbizia. Anche io, fuori dal campo di pseudoprigionia, venivo osservato con espressioni di simpatia: saluti, sorrisi, provocazioni finalizzate ad U attaccar bottone" I e c'erano di mezzo sempre ragazze con quei loro “mavra matia" che ti bloccavano le pupille. So che per diverse volte, curiosando per le vie brulicanti del Pireo, ero riuscito a non dar retta alle tentazioni di stare alloro gioco, ma poi dopo un paio di giorni di quella sosta sfaccendata in attesa che i tedeschi organizzassero il lungo convoglio per riportarci in Italia, così dicevano loro, spinto dal mio desiderio, per modo di dire, inconfessato di vivere un'avventura sentimentale che a me sembrava pur lecita, finii con accettare l'invito di due belle ragazze a seguirle in una abitazione dove, tra bei sorrisi e offerte propiziatorie di cibo, mi fu chiaramente esposto il loro progetto di rispedirmi a casa dopo una fase U magica" per metamorfosarmi la superficie corporea. In breve, avrei dovuto cambiar pelle, svestire la divisa e indossare gli abiti civili che loro mi avrebbero fornito, vivere "con loro" da greco camuffato (meno male che già cominciavo a esprimermi nella loro lingua) in attesa del rimpatrio grazie all'efficienza di una organizzazione segreta inglese che prevedeva l'imbarco notturno in un sottomarino che mi avrebbe traslocato in Egitto e di là con un secondo raid non meglio specificato, nell'agognata patria ..


Di fronte a tale magnanimità di proposta tra sorrisi e ammiccamenti, sia pure in velati termini ultimativi, per un attimo mi sembrò di formulare pensieri sconnessi: Ovidio Nasone (nato a Sulmona nel 43 a.c.) grande poeta latino famoso anche per le Metamorfosi dei miti greci, un detto latino che stigmatizza il carattere del popolo greco tineo: Danaos et dona ferentes, che vuoi dire: non fidarti dei greci specie quando ti portano doni, il tutto sotto quei martellanti sguardi di tanti occhi neri. Risposi che, in qualità di medico, iatros, non potevo esimermi dal seguire i soldati; e non era vero, mentre era stata saggia la mia decisione di non fidarmi perché, se avessi abboccato, venni a sapere dopo, mi avrebbero ... "lasciato" andare in montagna con i gruppi di partigiani per fare il cecchino contro i tedeschi. Altro che" sogno di mezzanotte d'estate" insieme con una bella despinis greca.
Certo che ripensandoci adesso che rivivo il vissuto, ho motivo di rallegrarmi con me stesso di come son riuscito, direi sempre, a cavarmela nei momenti difficili, e chissà se allora davanti al bivio fui salvato da una reminiscenza di cultura classica piuttosto che dalla ritrosia ad affrontare l'ignoto.
La parentesi della semilibertà in terra greca era destinata a chiudersi, e infatti dopo un paio di giorni, quando il numero dei militari italiani ammassati raggiunse il quorum prestabilito, arrivò 1'ordine della partenza: un convoglio lunghissimo di carri, alcuni anche scoperti, per gli ufficiali vetture vecchie di prima classe, con me un soldato con tanto di croce rossa al braccio che mi aiutò a difendermi .... dalle cimici e dal caldo afoso insopportabile. Le cimici mossero alla carica a decine in piena luce solare, si era nelle prime ore pomeridiane, ma divennero il bersaglio ludico di chi le inseguiva con la fiammel1a dell' accendino. Progettai subito di non dormire seduto con gli altri, ma di accucciarmi nei corridoi tanto che 1'attendente (cosi si chiamavano i soldati al nostro servizio) delimitò subito un'area con un tela di tenda mettendocisi a guardia. Comunque l'esperienza della prima notte fu oltremodo disastrosa non per le cimici ma per la ristrettezza dello spazio e soprattutto per l'afa; da quando avevo
messo piede nell' isola il cielo era rimasto sempre azzurro, sentivo la nostalgia di nuvole e chissà per quanto tempo ancora le avrei desiderate data la lentezza di marcia del convoglio.
Insieme con il mio boy decidemmo con un lampo di genio di allestire la cuccia sul tetto del vagone, che bello, avremmo parlato con le stelle finalmente; per fortuna che le due locomotive di testa erano lontane da noi abbastanza da non essere lambiti dagli sbuffi di fumo nero, all' entrata nelle gallerie si avvertiva una strana sensazione come di contrazione epidermica generalizzata, forse per i peli che si drizzavano. Naturalmente quando la tradotta aveva raggiunto i territori dell'Europa centrale, l'aria si era fatta più fresca, finalmente gradevole e il paesaggio ondulato e ben coltivato, si era all' ottavo giorno circa del viaggio e si capiva benissimo che ci stavamo allontanando dall'Italia tanto che anche il mio interlocutore aveva cambiato registro nelle risposte: non sapeva esattamente, sorrideva, forse io avevo capito male prima.
Il segnale che la corsa del treno stava per terminare mi fu dato con 1'anticipo di una notte: a "Meppen” una località non lontana dalla frontiera olandese, la tarda mattina del 12 ottobre di quell'anno 1943, esattamente dopo 12 giorni dalla partenza. Ma il campo era distante una trentina di Km, e mentre soldati, graduati e ufficiali venivano intruppati per la "marcia longa", io fui tenuto in disparte nell' attesa di salire su un mezzo di trasporto, ciò che avvenne dopo un paio d'ore. Confesso che in quel momento provai un certo disappunto della mia discriminazione, avrei camminato volentieri anche con il carico di uno zaino pesante, ma tant'è mi adattai con un verso di Dante: "vuolsi così colà dove si puote!”.
Sbarcato al campo di Versen e ubbidendo ai comandi di un capitano della Wermacht che venivano trasmessi in italiano da un nostro sergente, mi schierai con il gruppo degli ufficiali, un centinaio. Finito così quella specie di credito privilegiato di cui avevo goduto, mi disponevo con molta serenità ad affrontare la nuova vita di prigioniero che iniziava in quel preciso momento, un pomeriggio di circa metà ottobre 1943. Il piazzale del campo si era riempito dei nuovi arrivati: i soldati in file multiple schierati a formare i tre lati di un quadrilatero, gli ufficiali a parte e, quando arrivò il nostro turno, il capitano che aveva un viso quadrato da ... cane bulldog, fece chiedere dall'italiano se per caso anche qualcuno di noi era in grado di svolgere il ruolo di dolmetscher per quello che lui si apprestava a dire.
Credo che il sergente non fece in tempo a terminare la domanda che io, per paura di essere fregato da altro più svelto di me, alzai il braccio destro sventolandolo per mettermi bene in evidenza, così che in pochi istanti mi trovai al suo posto al fianco del capitano. Ripensandoci ora a tanti anni di distanza, mi viene in mente il Benigni nel suo film "La vita è bellao, il quale senza conoscere un' acca della lingua, si propone come interprete degli ordini scoppiettanti impartiti dal sergente tedesco ai disgraziati italiani deportati e destinati al forno crematorio, tra i quali anche suo figlio bambino. Benigni con la sua faccia "di tolla" che gli valse l'Oscar e la stessa cadenza vocale del sergente, traduce il discorso illustrando il suo programma di frottole gioiose che sta facendo vivere al bambino. Bene, io in quel momento avevo fatto qualcosa di simile, perché delle frasi che il capitano pronunciava fluentIy, afferravo soltanto e per fortuna, il significato di alcune parole chiave, sulle quali però imbastivo un discorso più lungo dell' originale in tedesco, al punto che più mi divertivo nella danza verbosa e più mi sentivo gratificato dallo sguardo compiaciuto del "mio" capitano, il quale alla fine, anziché in baracca comune con tutti gli altri, mi fece assegnare all'infermeria (Revier) gestita interamente da italiani in qualità di "medico-Dolmetscher", cioè di interprete. In tal modo, con la stessa "faccia di tolla" del Benigni, iniziai a vivere la nuova avventura di prigioniero "privilegiato"

Δεν υπάρχουν σχόλια:

Δημοσίευση σχολίου